AL REFERENDUM SI

Non m’interessa la divisione tra quelli del sì e quelli del no. Voglio semplicemente condividere la riflessione che mi porta a votare sì alla riduzione dei parlamentari. Vero che marcare una divisione fa molto più presa, è più modaiola. Sappiamo anche che le divisioni su temi e decisioni importanti per il Paese hanno dà sempre rappresentato una zavorra per l’inconcludenza delle scelte stesse.  Ora ci tocca affrontare la questione al punto in cui siamo. Quando la politica italiana comprenderà che quel che conta è la consistenza e la lungimiranza delle scelte e non la moda pronta di breve periodo che veste il populismo, allora potremmo tornare a vantare di essere un grande Paese.

Per il momento prendiamoci quel che passa il convento. Precisando che tutti partecipiamo alla vita del convento, tutti noi cittadini uomini e donne ne siamo democraticamente coinvolti e responsabili se pur per gradi differenti tra rappresentanti e rappresentati.

In democrazia le riforme delle regole del gioco che sono poi quelle costituzionali non possono essere il carosello delle divisioni o delle opportunità o ancor peggio della misera speculazione politica elettorale d’arrembaggio.

La nostra Repubblica è basata sui Partiti. Che si chiamino prima movimenti o in fase embrionale “sardine” o per alchimia “lega” sempre Partiti diventano e sono.

Sono i Partiti che designano i loro candidati al Parlamento e nei ruoli di Governo. Ogni Partito indica le modalità di selezione come meglio crede. Ma i Partiti non sono entità astratte. Sono un’organizzazione di cittadini. La forma, la storia e il volume della partecipazione al Partito ne determina l’azione e l’effetto del sistema democratico del Paese.

La democrazia partecipativa è quindi tanto importante quanto quella rappresentativa. Oggi si sente la necessità di risollecitare reinventare rimodulare la democrazia partecipativa.

Poi viene la legge elettorale. Proporzionale o maggioritario, maggioritario a doppio turno o proporzionale con sbarramento. A seconda della rete che disponiamo varia il pescato e i Partiti lo sanno bene.

Le esperienze passate di riforme Costituzionali intanto ci dicono una cosa. Che di riforme ne abbiamo bisogno altrimenti non si comprende perché sono all’incirca trent’anni che la classe politica ci prova. Da Berlusconi a Renzi per citare gli ultimi.

Ogni volta però i progetti sono finiti nel tritacarne della divisione e negli abissi del mare magnum referendario dove l’obbiettivo è l’affondo dei Governi nello spirito da battaglia navale che nulla centra con i quesiti referendari.

Siamo una Repubblica fondata sui partiti e agiamo nell’ambito della democrazia rappresentativa.

Io credo nella democrazia rappresentativa, allo stesso tempo comprendo, che la struttura politica democratica abbia bisogno di modifiche.

Democrazia rappresentativa significa che il Parlamento eletto ci rappresenta e per noi decide. Sono balle e fumo negli occhi la propaganda del popolo che decide. Al popolo tocca votare quando gli tocca e in democrazia questo vale molto, ma visto il crescere del non voto mi sembra che alberghi ad arte una certa confusione di ruoli e di competenze e anche di confusione nel riconoscere lo stato della democrazia.

In un sano regime di democrazia rappresentativa le riforme costituzionali si completerebbero in sede Parlamentare senza andare a referendum. Invece a referendum ci siamo andati per ben tre volte: nel 2001 revisione del titolo V della costituzione dove si è precisato meglio (ma non compiutamente) il potere delle Regioni e dei Comuni.  Affluenza 34% e ha vinto il si.  Poi nel 2006 proposta di riforma istituzionale del centrodestra: ha prevalso il no con una partecipazione del 52,5% e infine nel 2016 proposta di riforma del centrosinistra; affluenza del 65% prevalenza dei no per 59% con il contributo di tutte le opere pie della sinistra d’ordinanza.

Quelle stesse sinistre che oggi sono per il no alla riduzione del numero dei parlamentari e che ingenuamente sembrano fare da cocchieri ai vispi populisti come Lega e altri, che nelle segrete stanze, fatto quattro conti, se il mitico popolo dice no al referendum si fregano le mani e se ne fanno una sospirata ragione. E se con il no si dà una spallata all’affondo del Governo allora si è fatto bingo.

A parer mio basterebbe solo questa considerazione per votare si senza esitazione.

Ma andiamo oltre. Nel si c’è tanto sentimento popolare, che non è populismo gratuito; dipende quanto siamo capaci di solcare l’inizio di un’azione riformatrice che il Partito Democratico deve fare con coraggio serietà e responsabilità distintiva.  I sostenitori del no sventolano la bandiera delle paure: “c’è un rischio oligarchia” – viene meno la democrazia, viene a mancare la rappresentatività di alcuni territori, sino a bollare il si con il marchio “dell’antipolitica, l’odio del Parlamento e la mancanza di rispetto per ogni minoranza, ..a questo i sostenitori del no aggiungono che il si “consegnerebbe il Paese e la stessa elezione del Presidente della Repubblica nelle mani di pochi oligarchi.”

Come vedete c’è un populismo di sinistra che guarda caso fa leva su altrettante paure false e inconsistenti.

Non c’è nessun rischio democratico e nell’epoca digitale manco di rappresentanza. Quelli del no evidentemente ritengono il sistema paese tanto immaturo e fragile semplificando e ingannando con l’equazione numero dei Parlamentari /Democrazia.

Parole forti che fanno perno sulla paura e che raffigurano la nostra democrazia tanto debole da non poter sostenere un numero di parlamentari al pari delle altre Nazioni Europee per rapporto eletti abitanti. Sulla rappresentatività mi vien da sorridere nell’era digitale e nel constatare quanto sia sfuocata l’immagine che ne deriva. Sfido i “ceti riflessivi” fautori del no a porsi in un giorno di mercato nella propria città e domandare ai passanti il nome del loro parlamentare rappresentante di collegio. Secondo voi in quanti sanno rispondere?

Inoltre la rappresentanza territoriale che secondo i sostenitori del no viene messa in pericolo con meno Onorevoli e Senatori a mio avviso riacquista in efficacia strategica e metodologica in un Paese sin troppo frammentato in 8mila Comuni 107 province e 20 Regioni. Dove la litania del legame territoriale è la miopia nella visione nel lungo periodo.

L’assalto alla “diligenza” che assistiamo ad ogni legge di stabilità dovrebbe aiutarci a comprendere quale direzione riformatrice è necessaria.

Il Partito Democratico deve farsi portavoce di un “si” prodromico a uno sviluppo riformatore graduale ma tenace e coraggioso nella sua chiarezza. Democrazia e crescita economica sono anelli della stessa catena. In Italia ma non solo, questa catena è aggrovigliata, al Partito Democratico la missione di districare i nodi della catena per una ritrovata crescita economica solida e duratura. Perché la qualità del sistema politico democratico è strettamente collegato alla qualità della crescita economica.

Ai 5 stelle riconosciamo che l’idea di partire dalla riduzione del numero dei Parlamentari possa essere considerato un primo passo. A noi del Pd tocca aumentare l’andatura e riattrezzarsi per la crescita del XXI secolo. Solo attraverso la revisione del sistema democratico togliamo i fronzoli dell’ancheggio populista e diamo vigore e slancio all’andatura riformista, con intelligenza e visione aggregando  tutte le forze moderate e sagge del nostro Paese.

Partiamo da un si ma partiamo. “I rischi legati all’attuale stasi democratica e al suo impatto sul progresso economico sono troppo grandi perché si continui ad ignorare la riforma del sistema politico”.

Il si non è una riforma ma può segnarne l’inizio.

Gianluigi Malerba

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